Filippo Penati (Magazine – settembre 2007)

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Filippo Penati, 55 anni, la maggior parte dei quali trascorsi sotto le ciminiere di Sesto San Giovanni, è il presidente diessino della Provincia di Milano che flirta con gli avversari polisti. Ex sindaco della Stalingrado d’Italia (Sesto, appunto), è il prototipo dell’incubo gauchista: il dirigente ex comunista che ha perso ogni grammo di ideologia nella sauna della realpolitik. L’incarnazione dell’antigirotondismo. Feroce sui temi della sicurezza e tremontiano in materia di tasse. Non ha esitato a rompere con Rifondazione quando un assessore alleato lo ha accusato di derive centriste con sbandate a destra.
La frattura poi si è ricomposta. Nel frattempo Gad Lerner le ha dato del leghista.
«Di sinistra».
L’attenuante. Contento?
«Io non offendo chi vota la Lega. Sono voti popolari».
La ministra Barbara Pollastrini, sempre parlando di lei, ha sentenziato: «No ai neoleghismi».
«Le etichette non servono. Il dato reale è che da 15 anni la sinistra perde nella zona più avanzata del Paese. O si è un po’ stolti e si decide di non cambiare o ci si muove».
Verso destra?
«Il tema delle alleanze è stato toccato anche da Piero Fassino e da Francesco Rutelli».
E un suo documento sulla sicurezza è stato votato da tutta la Casa delle Libertà. Il manifesto: «Penoso Penati».
«Il manifesto ha titolisti efficacissimi».
Già. Si riferivano alle sue posizioni su infrastrutture, tasse e sicurezza.
«I temi del Nord. Su cui il Pd deve puntare. E su certi progetti si possono cercare anche nuove alleanze».
Anche con Forza Italia?
«Formigoni ha aperto un discorso serissimo sul riformismo. Se nel centrodestra nascesse un’esperienza come quella della Csu bavarese, il Pd dovrebbe pensare a come rapportarsi con quella forza».
Intanto, Nando Dalla Chiesa, responsabile della Margherita milanese, dopo un incontro pubblico tra lei e il sindaco Moratti ha detto che mancava solo lo scambio di Baci Perugina.
«Dalla Chiesa dovrebbe spiegare ai nostri elettori perché si oppose alla candidatura di Umberto Veronesi. Se si fosse presentato l’oncologo, oggi a Milano avremmo un primo cittadino ulivista».
Invece c’è la sua «amica» Moratti.
«Sono contrario al muro contro muro e ho sempre cercato di parlare anche all’elettorato leghista».
Ha subito una mutazione genetica o è sempre stato così?
«Alla fine degli anni Ottanta lessi avidamente il libro di Giulio Tremonti Le 100 tasse degli italiani e feci mia la sua lezione».
Quale lezione?
«Le mille lire di tasse versate da un milanese non devono necessariamente passare per Roma per tornare ai milanesi».
Roba da Pontida.
«Macché. Semplice federalismo fiscale. Allora si chiamava autonomia finanziaria. Il bisogno di efficienza e il rigetto per gli sprechi sono temi ancora fortissimi al Nord. E solo Berlusconi li porta avanti dal 1993. Il Pd deve puntare su questo».
Il Pd deve copiare Berlusconi?
«No. Anche perché Berlusconi ha fallito. Ma ci vuole una innovazione dell’offerta politica. Si deve scommettere sulla modernizzazione e sulla riforma delle istituzioni. Recuperare la lezione della conferenza di Rimini del Psi sui meriti e i bisogni».
Quella del 1982: farina del sacco di Claudio Martelli.
«Il Pci non intuì l’importanza di talune istanze craxiane. In ogni caso vanno rotti certi tabù».
Tipo?
«Non è possibile che un postino milanese guadagni la stessa cosa di un postino meridionale».
Ma allora ha ragione Lerner, lei è leghista.
«Dico solo che la vita al Nord costa più che al Sud».
Altri tabù da abbattere?
«Chi è di sinistra non deve temere di sembrare razzista solo perché ci tiene alla sicurezza».
Si dice che lei abbia paragonato i rom alla mafia.
«Non si può restare inermi mentre i bambini rom vengono sfruttati e costretti dalle loro famiglie a non andare a scuola. Ristabilire la legalità aiuta a evitare le pulsioni razziste e a considerare delinquenti solo quelli che delinquono».
Lei una volta si è espresso a favore della riapertura delle case chiuse.
«Prima vanno abbattuti i racket e le forme di sfruttamento più intollerabili. Nel 2000, appena diventato segretario milanese dei Ds, ho fatto una battaglia per cacciare tutti gli abusivi. Va perseguita ogni forma di illegalità».
I lavavetri di Firenze…
«Vanno puniti in modo che non ripetano l’illecito»
La Procura di Firenze ha detto che non c’è nessun racket dei lavavetri.
«Se il sindaco Domenici si è mosso vuol dire che la considerava una priorità. Meglio agire a seconda delle priorità percepite che andare avanti con il benaltrismo».
Che sarebbe?
«L’incurabile malattia infantile di una certa sinistra: dire che i problemi veri sono ben altri e concentrarsi sui massimi sistemi».
Lei ha detto che nel rapporto tra la sinistra e la legalità il ’68 ha fatto parecchi danni.
«È così. Prima del ’68 la sinistra comunista non aveva cedimenti sulla legalità. C’era meno giustificazionismo».
Penati, mi fa il vetero comunista?
«Sul comunismo la penso come Giuliano Ferrara. Sono fiero di esserlo stato. E sono fiero di non esserlo più».
Quando ha preso la tessera del Pci?
«A 22 anni. Ma all’inizio non facevo vita di partito».
L’infanzia a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia.
«Figlio di un operaio della Garelli e nipote di un deportato a Mauthausen. Mia madre era emigrata al Nord dalla Sicilia,
con la valigia di cartone. Quando mio padre lasciò la fabbrica investì la liquidazione in una televisione della Westinghouse, che divenne l’attrazione della sua latteria. Mia nonna mi cucì una divisa da cameriere. Portavo i bicchieri. Ricordo che non avevamo bisogno dell’orologio».
Perché?
«Perché la vita era scandita dalle sirene che annunciavano l’inizio dei turni in fabbrica. Il fischio. Il secondo fischio
mattutino, quello delle otto meno dieci, funzionava anche da campanello collettivo per i ragazzi che dovevano uscire
per andare a scuola. Per le strade era un brulicare di operai che prima di varcare i cancelli passavano nei bar e nei circoli per farsi il loro grigio verde».
Che cosa è?
«Il bicchierino di grappa e menta.Aveva un odore fortissimo. Ma non quanto quello delle ciminiere che sputavano
puzze inconfondibili e fumi coloratissimi».
Liceo?
«Ho studiato da perito meccanico. La destinazione naturale era la fabbrica».
Ci ha mai lavorato?
«Un’estate alla Redaelli. Mi volevo comprare il motorino e venni assunto come vicecaporeparto. A settembre, mio padre, che aveva lasciato la latteria perché gestirla era troppo stressante, venne assunto al posto mio come tornitore. Secondo lui dovevo studiare».
Giusto.
«Be’, da ragazzo contestavo la teoria della scuola che ti fa fare il salto di classe sociale: a quei tempi c’era il mito dell’operaio. Alcuni studenti si travestivano da operai».
Anni duri?
«Vicino alla mia scuola durante una sparatoria morirono il brigatista Walter Alasia e due poliziotti che lo volevano arrestare. E a Sesto c’era anche Sergio Segio di Prima Linea».
Lei ha mai tirato una molotov?
«Mai. Sono sempre stato sulle posizioni del Pci. Il che, in una città operaia, voleva dire rispetto assoluto delle istituzioni. Anche nei particolari più insignificanti. Per dire: una volta che da assessore mi presentai in municipio senza calzini, il sindaco comunista mi fece una ramanzina di un’ora. E sì che faceva un caldo assurdo».
Lei faceva l’insegnante.
«Sì. Fino al 1994, l’anno della svolta».
L’elezione a sindaco.
«C’era Tangentopoli. La candidata pidiessina alle politiche del collegio di Sesto, Fiorenza Bassoli, venne travolta dall’ondata dell’antipolitica. Forza Italia divenne di gran lunga il primo partito della Stalingrado lombarda: un trauma. Temevamo di perdere anche il Comune».
Si candidò lei, si dice «portatore sano di fattore C», lo stesso di Prodi.
«Quella è una invenzione del mio portavoce Franco Maggi. Ma effettivamente io non ho mai perso».
Borioso. La sua carriera è figlia del berlusconismo?
«Nel 1994 la cosa più difficile fu passare dal “noi” comunista all’“io”. Durante i comizi quelli del mio staff si sbracciavano per ricordarmelo. Per una foto accattivante mi feci prestare una giacca blu dal vicino di casa, perché io non ce l’avevo».
Nel 2004, per le provinciali, la svolta modaiola: abiti Armani e salotti.
«Ombretta Colli fece la campagna elettorale dandomi del grigio funzionario di partito. Cercai di rimediare».
Come?
«Ferruccio de Bortoli, che allora non era ancora al Sole 24 Ore, mi consigliò di rivolgermi a Barbara Vitti: cambiai look».
Nacque il Penati-glamour.
«I miei figli ancora mi sfottono per certe gigantografie».
Dopo la vittoria alle provinciali festeggiò con Pierluigi Bersani fino alle 5 di mattina.
«Al Taxi Blues, una birreria. Bersani è un amico».
Godereccio?
«Una volta in campagna elettorale finimmo in un centro sociale per anziani dove stavano ballando il liscio. Lui cominciò a cantare. Le signore a quel punto cercarono di trattenerlo: c’era una sfilata di intimo per vecchiette».
Lei avrebbe preferito Bersani come candidato leader del Pd?
«Per il Nord sarebbe stata una candidatura più naturale, ma anche Veltroni sembra sensibile alle nostre esigenze».
Gianni Barbacetto nel libro Compagni che sbagliano la infila, insieme con Bersani, in una storiaccia che riguarda la scalata Unipol e la vendita di azioni della Serravalle all’imprenditore Marcellino Gavio.
«In quella storia non c’entro niente e non conosco Gianni Consorte».
Il caso vuole che lei abbia lavorato per l’Unipol.
«Se è per questo l’agenzia di cui ho ancora una piccola quota si trova in via Fiorani. Il caso».
Lei è stato indagato per abuso d’ufficio.
«Tutto archiviato, dopo aver chiesto il rito abbreviato».
Aspira a fare il sindaco di Milano?
«È un sogno, che non si avvererà mai».
A cena col nemico?
«Giulio Andreotti. E non gli chiederei se ha dato o meno il bacio a Totò Riina. Mi farei raccontare di quando era sottosegretario di Alcide De Gasperi nel dopoguerra, di come si costruisce una Repubblica e di come funzionava un partito-Stato come la Dc».
Il miglior ministro del governo Berlusconi?
«Gianni Letta. Sempre disponibile. Ma anche il nipote Enrico non è da meno».
La sua campagna acquisti in Europa, alla Sarkozy?
«Tony Blair, uno su cui non sputerei mai».
Il futuro leader della CdL: Roberto Formigoni o Letizia Moratti?
«Direi che ha più possibilità Formigoni, anche perché Letizia è a inizio mandato».
Delete. Formigoni o Agazio Loiero, presidente ulivista della Calabria?
«Cancello Loiero».
Bruno Tabacci dell’Udc o Cesare Salvi della Sinistra democratica?
«Cancello Salvi. Tabacci è lombardo».
Letizia Moratti o Sabrina Ferilli?
«Se proprio mi costringe… via la Ferilli».
Via la compagna Ferilli? Si rende conto che non ha salvato neanche un esponente del suo schieramento?
«Mi ha messo davanti tutti lombardi. Ho tenuto loro».
Cultura generale. I confini di Israele?
«Passiamo alla domanda successiva».
Tabula rasa in geografia?
«Non è il mio forte».
Quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro e 30».
Circa. Che cosa è YouTube?
«Quella cosa di Internet… i filmati».
Vabbè. Quanto costa fare l’amore con una prostituta?
«Dipende».
In che senso?
«È un mestiere vario. Immagino dipenda dal luogo e dal tipo di prostituta».
Ah, ecco.

LINK | DIETRO L’INTERVISTA Prima di cominciare l’intervista nel grande studio della presidenza della Provincia sorge un problema: come posizionare il registratore vicino a Penati? Le sedie sembrano uscite dalla reggia di Versailles. Stucchi dorati e velluti ricamati: gigantesche e scomodissime. Lontane da qualsiasi punto di appoggio. Si decide di avvicinarne due (la mia e quella del Presidente) e di incastrarci in mezzo l’apparecchietto. Come un ponticello. Tutto bene. Fin quando non arriva la domanda sull’alleanza tra il Pd e Forza Italia. Sarà un caso, ma prima che Penati risponda cade il registratore. Battuta del Presidente: «Vede? Un’alleanza così, oggi, non regge. Cade. Ci vuole ancora un po’ di lavoro, soprattutto sulla sponda della CdL».

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