Checco Zalone – 2 (Sette – gennaio 2016)

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(Intervista di copertina pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 15 gennaio 2016).
Prima di arrivare nella sua abitazione, facciamo un giro nel cuore di Bari Vecchia. Luca Medici, cioè Checco Zalone, cerca di camuffare la sua identità con uno sciarpone, gli occhiali da sole e un berretto scuro. Serve a poco. Due vigili si danno di gomito, una signora lo indica platealmente per segnalarlo al figlio e appena passiamo di fronte al bar I templari, un gruppetto di ragazzi gli urla qualcosa in dialetto stretto. Parole smozzicate. Chiedo una traduzione. Eccola: «Fatti una foto con noi, altrimenti ti spacchiamo la faccia». Gli tolgono il cappelletto dalla testa. Clic. «Scherzavano, eh».
Saliamo in casa. Appartamento hi-tech, vista mare. Pioviggina. Checco esce sul terrazzo per fumare. Smanetta con lo smartphone. Arrivano valanghe di sms. Da un paio di settimane si parla più di lui che di Angela Merkel: sui quotidiani vengono srotolate ricostruzioni sugli esordi a Telenorba, rispunta la genesi del nome d’arte (“Che cozzalone”, che in barese vuol dire: “Che tamarro”) e i siti ripropongono carrellate di vecchi sketch dei tempi di Zelig. Editorialisti, cineasti e semiologi si esercitano per interpretare il successo del suo ultimo film. Una giostra di opinioni a chi ce l’ha più arguta: tra disprezzatori funambolici, finti indifferenti, critici meaculpisti e politici che zompano sul carro del blockbuster. Nel frattempo le sale si riempiono di checcomaniaci (ma anche di checcoscettici incuriositi) e Quo vado? si appresta a sfondare il muro avatariano dei 66 milioni di euro di incassi.
In linea di massima, ogni volta che Luca/Checco apre bocca, dice qualcosa a metà tra il serio, il faceto e il surreale. Accanto a un quadro dell’artista Pietro Ruffo, c’è un pianoforte a coda. Spiega: «Me lo sono regalato dopo Sole a catinelle. Questo modello ce lo abbiamo io, Pippo Baudo ed Herbie Hancock. È l’unico oggetto che possiedo più costoso di quello che ha in casa Valsecchi». Pietro Valsecchi, produttore, è il primo che ha scommesso sulle doti cinematografiche di Checco Zalone.
L’attore racconta: «Circa un anno fa gli chiesi di organizzare una cena a Roma con Stefano Bollani, che per me è un mito. A casa sua, però, non c’era un pianoforte degno del musicista. E allora Valsecchi ne ordinò uno al volo. A coda, ma una schifezza rispetto al mio. Quella stessa sera ho avuto il placet di Bollani sul ritornello della canzone La Prima Repubblica». Checco si mette al piano. Suona una strofa.
Un paio di accordi e passa alla musichetta del Maurizio Costanzo Show con tanto di imitazione dell’anziano conduttore. Clanc. Si apre la porta di ingresso. È Mariangela, la fidanzata di Luca/Checco. Ha con sé due pacchi gonfi di leccornie per il pranzo. Chiedo: «Checco fa la spesa?». Lei fa uno sguardo ironico: «La spesa? Lui suona. Sempre. Anche all’alba». Checco: «Non scherziamo. Quando mi ha telefonato Renzi stavo talmente carico di buste di pesce, che non riuscivo nemmeno a tenere il cellulare». Dopo qualche minuto è pronto in tavola: friselle al pomodoro e orecchiette con cime di rapa. «Vanno mangiate caldeeee». Compare Gaia, tre anni. Checco la abbraccia: «Che cosa hai visto ieri al cinema?». Lei: «Masha e Orso». Io: «Non Checco Zalone?». Lei: «No, lui è il mio papà preferito». I due si contendono il telecomando. Lui prova a sintonizzarsi su Indagine ad alta quota (National Geographic) e poi, sonnecchiando, passa alla versione restaurata del Sorpasso. Lei pretende Cartoonito. E alla fine prevale. Suona il citofono. Entra Valsecchi: «Presto! Una dose massiccia di Zalonix». Il riferimento è ad Adriano Celentano che ha vergato per il Corriere un elogio dello spirito zaloniano e ha scritto che Cado dalle nubi lo rilassa più del Lexotan». Checco chiosa: «Attenzione. Dal Lexotan al Guttalax, il passo è breve».
Si scherza sugli incassi: «Oggi quanto faremo? Due milioni? Quattro milioni?». Si programma una vacanza a Cortina. Cortina è il luogo dove Valsecchi e Zalone si sono incontrati la prima volta. Il ricordo è tra l’indelebile e il grotesque: «Mi presentai in giubbetto jeans. Faceva un freddo assurdo: meno dieci. Pietro mi offrì tartufo d’Alba e vini rossi pregiati. Non amo il tartufo e bevvi troppo. La notte vomitai». Compulsando gli smartphone si leggono un po’ di critiche: c’è chi stronca l’uso eccessivo di cliché, sull’Huffington Post dicono che Zalone è la Democrazia Cristiana che si fa cinema comico, su Internazionale che Checco non ha abbastanza coraggio e su l’Unità che incarna l’ostilità reazionaria al cambiamento. Su quest’ultimo punto l’attore non ci sta: «Ma lo hanno visto il film?». Cito il critico Marco Giusti. Mi stoppa: «Giusti è un amico. A cena mi balbetta per ore il suo pensiero. Su Quo vado? inizialmente ha scritto che è un film buonista, in realtà credo che nemmeno l’abbia vista la parte buonista. Alla fine ha rettificato il giudizio in base agli incassi».
Io e Checco ci appartiamo in una stanzetta. Comincia l’intervista.
I critici sostengono che Quo vado? riveli un’eccessiva indulgenza verso i vizi degli italiani.
«È vero. Di questo schifo che siamo noi italiani, penso che qualcosa vada salvato. È il motivo per cui ho successo. Non mi piace puntare il ditino dall’alto di un piedistallo».
Nicola Lagioia parlando delle polemiche sul film ha scritto: «Sventurato il Paese che ha bisogno di fare il gioco della torre tra intrattenimento e autorialità».
«Ho capito che il conflitto tra l’alto e il basso è trapassato quando ho ricevuto l’applauso del pubblico di Francesco De Gregori dopo aver duettato con lui in una libreria Feltrinelli».
Hai suonato con lui all’Arena di Verona.
«C’è stima reciproca. La sua ironia e la sua schiettezza mi sorprendono sempre. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: “Dato che io non vendo più un disco, mi dai una mano e vieni a suonare con me in libreria?» Ahahah».
Renzi, premier ultrapop, ha detto che è un tuo fan da sempre. Non come certi radical chic.
«Mi ha scritto per farmi in bocca al lupo e per dirmi che sarebbe stato in prima fila con tutta la famiglia. Ha aggiunto anche un post scriptum per commentare la parte che lo riguarda della canzone La Prima Repubblica».
Tu canti: «…Ma il Presidente è toscano/ell’è un gran burlone/ ha detto “eh, scherzavo” /piuttosto che il Senato mi taglio un coglione».
«Ecco il suo sms: “Prima di tagliarmi un coglione taglio Senato, Camera e Palazzo Chigi. Ai coglioni tengo molto”. Poi mi ha chiamato e mi ha fatto la classifica delle gag preferite dai figli».
Hai avuto il sospetto che volesse cavalcare l’onda zaloniana?
«Il sospetto? La certezza! Ahahah. Scherzo, eh».
Maurizio Gasparri ha detto che il film stronca la riforma renziana delle province.
«Oddio, allora devo stravolgere la sceneggiatura… Io faccio il comico. Prendo per il culo un fatto evidente: siamo un popolo restio al cambiamento. Non credo che questa constatazione abbia un colore politico. Per par condicio comunque ti dico che qualche mese fa sono stato ad Arcore».
Per una cena elegante?
«Un pranzo. Mi ha invitato Piersilvio».
Checco Zalone alla corte del Cavaliere.
«In realtà lui è stato con noi solo una mezz’oretta. Sono capitato il giorno in cui si è materializzata l’ipotesi di una scissione dentro Forza Italia».
Quella dei verdiniani e dei fittiani?
«Non lo so. Berlusconi stava a tavola con questo foglietto in mano. Sopra c’era il piccolo elenco degli scissionisti. Era piuttosto incazzato».
I Berlusconi ti hanno mai bacchettato per la tue canzoncine sul lettone di Putin e sulla D’Addario? Zelig, 2009. Erano abbastanza pesanti.
«So che i big di Canale 5 ne discussero. Ma ormai mi ero esibito in teatro, se l’avessero censurata avrebbero fatto una figuraccia. Credo che Piersilvio si sia divertito un sacco. Mica è scemo. E poi che cosa avrei detto di tanto sconcertante? Che il padre va a mignotte? E capirai! Qualche mese fa ho incontrato la D’Addario in un ristorante. Mi ha ringraziato. Mi ha detto: “Sono diventata famosa grazie a te”».
Notorietà. Nel bene o nel male stai costringendo tutti a farsi un’idea su Checco Zalone.
«Come puoi vedere dalla mia libreria, oltre all’opera omnia di Antonio Cassano, c’è poco. Ahahah. Mi tocca andare a cercare su internet le citazioni utilizzate dagli intellettuali per descrivermi».
In questi giorni negli articoli sulla checcomania è spuntato di tutto: Flaiano, Bertoldo, Homer Simpson…
«Mi è piaciuta molto la frase di Joseph Conrad usata da Gennaro Nunziante per descrivere il nostro lavoro ozioso tra un film e l’altro: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”».
Gennaro Nunziante è il regista con cui hai realizzato tutti i tuoi film.
«Siamo una coppia di fatto».
Come vi siete conosciuti?
«Lui era un autore leggendario di Telenorba. Un giorno mi dissero che stava cercando un finto cantante neo-melodico per lo show Sottano’s, la parodia dei Soprano’s. Mi presentai col pezzo La globalizzazione. Dopo avermi ascoltato, mi chiese: “Ma ci sei o ci fai?”. Mi prese».
Come nasce un vostro film?
«Il 90% delle idee che ci vengono… le cestiniamo. La canzone del film di quest’anno inizialmente doveva essere Facci sforare, un pezzo cantato da bambini europei e dedicato alla Merkel. Ma l’attualità ha fatto sì che tagliassimo tutto. Ci siamo concentrati sulla pubblica amministrazione. Dopo la nomina di Raffaele Cantone all’Expo e il gran parlare di corruzione e concussione, cazzeggiando ci siamo chiesti che cosa fossero davvero. È nata una prima scena».
E poi?
«Non sapevamo come andare avanti. Abbiamo aggiunto altre suggestioni. Seguendo il metodo di Gennaro».
Quale metodo?
«Noi lavoriamo confezionando blocchi di sei minuti. Ogni sei minuti un tema, che si collega indissolubilmente a un altro blocco».
Quo vado? è diviso in blocchi da sei minuti?
«Certo. Blocco uno: la descrizione del personaggio ossessionato dal posto fisso. Blocco due: il racconto del licenziamento. Blocco tre: la mobilità. Blocco quattro: il Polo Nord…».
In fase di scrittura chi fa che cosa?
«Gennaro è più attento alla struttura ideale della scena, io alla costruzione delle gag».
Mi fai un esempio?
«L’idea del bambino che risponde alla domanda su che cosa vuole fare da grande dicendo che aspira al posto fisso, è di Gennaro. La risposta “voglio fare il posto fisso”», invece, è una metonimia giocosa tutta mia».
Vi capita mai di tagliare qualche scena a cui tenete?
«Sì. Nell’ultimo film è rimasto fuori un lungo comizio del senatore Binetto. Lino Banfi ha girato per sei ore e poi la scena è sparita. Sono un po’ in imbarazzo».
Il produttore Valsecchi interviene e vi chiede modifiche?
«Abbiamo avuto liti che sono durate giorni interi. In Cado dalle nubi lui avrebbe preferito buttare la parte sui leghisti. Ma non per ragioni politiche».
E perché allora?
«Perché era girata davvero male. Luci di merda, location pessima. Aveva ragione. Ma io e Gennaro non abbiamo voluto rinunciare. Tra l’altro Valsecchi per Cado dalle nubi avrebbe voluto anche un altro titolo».
Quale?
«Siamo ragazzi qualunqui. Anche lì abbiamo resistito. Valsecchi è uno che ti stronca con un grugnito bonario. Io sono il comico, lui è quello concreto e Gennaro è l’intellettuale».
È vero che tu e Gennaro, quando dovete accelerare sulla stesura della sceneggiatura, vi allontanate da Bari?
«Si, ci rifugiamo in un residence buio e rumoroso, nel centro storico di Roma. L’ultima volta che sono venuto nella Capitale però ho ottenuto di dormire in un residence vicino a piazza Mazzini. Il mio vicino di stanza era Carlo Freccero, che vive lì».
Freccero, maestro di tv, ora nel cda della Rai.
«La mattina lo incontravo nella hall. Mi diceva due cose intelligenti e fuggiva. Quelli del residence un giorno mi hanno detto: «Con tutti gli incassi che fai, perché non frequenti un hotel a 5 stelle?”».
Effettivamente: 14 milioni con Cado dalle nubi, 43 con Che bella giornata, 52 con Sole a catinelle, con Quo vado? forse saranno più di 60. Diciamolo: sei diventato ricco.
«Mica vorrai parlare di soldi».
Perché no? All’inizio non guadagnavi tanto coi film, ora…
«Sarò un po’ più ricco di te».
Un po’. Spara le percentuali che ti spettano sugli incassi.
«Non posso. Ma calcola che io non monetizzo questo successo».
In che senso?
«Quando ero a Zelig accettavo serate e comparsate alle convention, ora ho smesso e, a differenza di molti colleghi, non faccio pubblicità».
Ti hanno offerto di fare il testimonial?
«C’è la fila. Compagnie telefoniche, case automobilistiche… Ti fanno offerte tali che ti senti un po’ coglione a rifiutare».
Tu perché rifiuti?
«Sarebbe uno schifo. Un tradimento. La gente ti viene a vedere, si diverte, ti vuole bene… e tu prendi la tua faccia da cazzo e la metti a disposizione di un prodotto? Non si fa. E non per afflato idealistico, ma per educazione. Poi c’è anche un problema di convenienza».
Cioè?
«Se ti vedono tutti i giorni in tv negli spot, quattro volte il pomeriggio e sei la sera, perché poi dovrebbero venirti a vedere al cinema?».
Torniamo a quanto sei diventato ricco.
«Un film ogni due anni, il 60% se ne va in tasse. Alla fine prenderò quanto un discreto giocatore di serie A. Anzi no, quanto uno scarso».
Come investi i tuoi guadagni?
«L’unica cosa che ti dico è che sono diventato socio di una società che si occupa di post produzione e mixaggi cinematografici».
Andresti ospite a Sanremo?
«No. La comparsata sanremese è strapagata, ma sono soldi pubblici. E se li prendi scoppiano le polemiche. Ti massacrano».
Soldi pubblici. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, dice che fai bene a tutto il cinema nostrano.
«E Gabriele Muccino ha scritto un post su Facebook più lungo della sceneggiatura di Quo vado? per ribadire che gli italiani sono fortunati ad avere me, perché i soldi degli incassi possono essere spesi per finanziare film belli… Ahahahah. In realtà se io fossi un altro attore comico o un regista oggi rosicherei un po’».
Molti lo hanno detto apertamente.
«È giusto: Checco Zalone starebbe sulle palle anche a me. Pensa a Carlo Verdone: tra poco esce il suo film… Sono cavoli, eh. Dopodiché tra cinque/sei anni spunterà un nuovo comico e toccherà a me rosicare».
Tu farai Checco Zalone a vita?
«Non so se ho alternative, come attore. Dovrei costringere la gente a uno sforzo mostruoso: vedermi recitare senza fare il coglione. Certo, prima o poi non mi dispiacerebbe un’esperienza internazionale».
Comici. Chi ti piace?
«Virginia Raffaele è bravissima. La sua imitazione di Marina Abramovic è fortissima».
Nel mondo?
«Louis Ck è pazzesco».
È uno stand up comedian feroce.
«Non so se in Italia siamo pronti per quella roba lì. O forse non c’è nessuno in grado di farla».
Ti sei mai pentito per la cattiveria di una tua battuta?
«In quest’ultimo film temevo che non venissero comprese le scene in cui gioco con il Giorno della Memoria e con gli immigrati sbarcati. Mi dicono che in sala il pubblico ride molto: vuol dire che hanno capito che scherzo!».
La tua imitazione riuscita peggio?
«Ho sbagliato quella di Michele Misseri».
Uno dei protagonisti nella vicenda del delitto di Avetrana: l’omicidio di Sarah Scazzi.
«Era in corso il processo e Misseri cambiava continuamente versione dei fatti. Lo immaginai ospite di una trasmissione di cucina mentre dava una ricetta e modificava continuamente gli ingredienti. Non è venuta bene. E forse non era il momento. Sui social mi hanno attaccato. Ho ricevuto pure qualche minaccia».
Tornerai a parodiare i personaggi dello showbusiness?
«Dovrei trovare il contenitore giusto».
Nel contenitore Zelig avevi sbertucciato l’eloquio macchinoso e sussurrato di Carmen Consoli, la zeppola buonista di Jovanotti, i testi risicati di Vasco, l’egocentrismo salentino di Giuliano dei Negramaro.
«Ora vorrei interpretare il Maestro Riccardo Muti. È di Molfetta. Lo farei bambino, già altero e severissimo. E con la maestra delle elementari che lo chiama… Maestro».
Vittorio Zincone
@vittoriozincone
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