Giovanni Trapattoni (Sette – settembre 2015)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera, il 18 settembre 2015).
Giovanni Trapattoni. Il Trap. Settantasei anni. Ha corso centinaia di chilometri con la maglia rossonera per arginare gli attaccanti più talentuosi degli anni Sessanta (tra gli altri Eusebio, Pelé e Cruijff). E ha allenato migliaia di giocatori: una mano per modulare il fischio pecoraro e l’altra per stringere il rosario, sempre in tasca. È «l’uomo che ha sposato il calcio e parla di pallone anche nel sonno» (testimonianza e diagnosi di Gianni Monti, medico del Milan).
Il Trap e il trapattonese, quella strana lingua fatta di parole che vanno avanti svelte, scomposte, che vincono un rimpallo e alla fine rotolano in rete. L’ultima volta è successo durante il commento di Italia-Malta. Giuanin era la seconda voce: «La difesa maltese è come una spugna: si mette acqua, acqua, acqua e alla fine si perde l’acqua».
L’intervista si svolge nella sua abitazione di Cusano Milanino. All’ingresso c’è una statua di san Francesco a grandezza naturale. Ogni tanto si affaccia la moglie Paola, sorridente. Il telefono squilla ogni tre minuti. Vogliono tutti sapere che cosa pensi il Trap del fatto che Aldo Grasso sul Corriere ha maltrattato la sua telecronaca definendola il de profundis della lingua italiana. Lui replica: «La puntualizzazione di Grasso mi ha stupìto. Lui è un professore. Io sono stato chiamato per le mie competenze nel calcio, non per il mio italiano. Uso metafore che vengono dall’esperienza di vita». Metafore e pugni sul tavolo che lo hanno reso un’icona ultra pop del calcio. Anche in Germania: quando allenava il Bayern Monaco, la furia di Ciofanni si abbatté sul centrocampista ribelle Thomas Strunz: «Was erlaubt sich ein Strunz? (Come si permette uno Strunz?)».
Ora il Trap ha scritto un libro (Non dire gatto, Rizzoli). Spiega: «Il racconto è mio. L’italiano corretto è di Bruno Longhi». Il titolo è ispirato alla più celebre delle perle trapattonesi («Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco») ed è una biografia gonfia di aneddoti: i primi calci a una vescica di maiale riempita di stracci e usata come pallone, le sfide a piedi nudi per le strade di Cusano, il provino al Milan e l’esordio a diciannove anni, il feeling con Gianni Agnelli, il corteggiamento di Silvio Berlusconi. E poi gli scudetti, le Coppe dei Campioni e il suo rapporto non fortunatissimo con la maglia azzurra. Ci sono anche gli arbitri. A un certo punto scrive: «Ho allenato la Juve, so che cosa vuol dire avere l’arbitro ben disposto verso la tua squadra».
È una confessione? La Juve ha sempre avuto gli arbitri dalla sua parte?
«Intendevo che un condizionamento psicologico c’era. Ora non credo che sia più così. Quando giocavo al Milan ed ero già Trapattoni mi è capitato che qualche arbitro invece di ammonirmi mi zittisse con decisione. La simpatia, il rispetto… Ma ho subìto anche molte ingiustizie».
La più dolorosa?
«L’arbitraggio di Moreno durante Italia-Corea del Sud durante il Mondiale del 2002».
Durante quella partita l’Italia non giocò egregiamente.
«Lo scandalo fu Moreno. Certo, Vieri si mangiò un paio di gol. E ci fu una disattenzione di Panucci sul gol del pareggio coreano. Ma nel calcio certi piccoli errori ci stanno sempre, una palla che rimbalza male, una scheggia impazzita che esce dalla logica».
Ci sono allenatori, come Arrigo Sacchi, che lavorano maniacalmente proprio per far sì che non ci siano schegge impazzite e che tutto rientri negli schemi stabiliti.
«Non è possibile. L’imprevisto capita e devi sempre avere il campione che sa interpretare le situazioni e gli schemi. Questo lo impari sulla tua pelle se hai giocato in giro per il mondo ad alti livelli».
Chi non ha giocato ad alti livelli non può capire che non tutto può essere calcolato?
«Se bastasse lo schema e i campioni fossero secondari, Sacchi avrebbe vinto anche dopo il ciclo di vittorie col Milan. La teoria è importante, ma poi se non hai chi realizza il progetto… Insomma: la pratica vale più della grammatica. E senza fenomeni e geni in campo non si vince».
Geni e sregolatezza. Lei, quando allenava l’Inter fece mettere una specie di investigatore privato sulle orme dei bon vivant Nicola Berti e Aldo Serena. Sembra che il Milan ora voglia piazzare un accompagnatore accanto a Balotelli.
«Giusto. Io, quando allenavo la Fiorentina, chiacchieravo fino alle 2 di notte con Edmundo. E lo stesso facevo in Nazionale con Cassano. Bisogna tutelare questi giocatori e cercare di farli digerire ai compagni. Anche se qualcuno ti dice che sono delle teste di ca… e che quindi non dovrebbero giocare. È il risultato che conta».
Il ct Conte dovrebbe far digerire Balotelli allo spogliatoio azzurro?
«Credo che ci proverà».
Il giovane che lei vorrebbe assolutamente vedere in Nazionale?
«Andrea Bertolacci, ha già fatto qualche presenza».
Qual è il suo asse centrale ideale tra i giocatori che ha incrociato?
«Platini in regia. Dietro Franco Baresi, davanti Roberto Bettega».
Lei andò a casa di Platini per portarlo alla Juve e a casa di Matthaus per farlo giocare nell’Inter. Oggi a casa di chi andrebbe per portarlo con sé?
«Qualsiasi nome io faccia rischio di far crescere il suo valore. E poi gli agenti degli altri mi chiamerebbero per protestare».
Leo Messi o Cristiano Ronaldo?
«In una gara contro avversari chiusi che non mi concedono nulla, Messi. Contro avversari che mi affrontano alla pari, Ronaldo».
Lei allenerà ancora? O il suo futuro è nelle telecronache?
«Finché sono senza panchina posso fare qualche telecronaca. Se mia moglie non avesse avuto paura di Ebola, oggi sarei in Costa d’Avorio o con un’altra nazionale africana. Ho avuto anche proposte europee».
Le accetterà?
«Mi hanno cercato club albanesi, rumeni, ungheresi. Accettare vorrebbe dire chiudere casa e trasferirmi. E non voglio più lasciar mia moglie qui da sola».
Qual è il gesto tecnico e atletico più bello a cui ha assistito da allenatore?
«Le aperture di Platini. Buttava la palla di prima intenzione in una zona del campo. Tu pensavi: “Ma dove cavolo l’ha lanciata?”. E poi ti accorgevi che aveva smarcato il compagno davanti alla porta avversaria».
Lei ha marcato Eusébio, Pelé, Cruijff…
«Loro erano le stelle, io la polvere in scia. Li studiavo. Cercavo di anticiparli, senza fare entrate troppo dure. Era la mia dote. Mi è capitato di oscurarli, ma anche di restare fregato. Durante la finale di Coppa dei Campioni del 1963…».
Il suo Milan vinse.
«Sì, ma al diciottesimo minuto del primo tempo Eusébio prese la palla, fece uno scatto felino e andò in gol. Lo marcavo io, non fu piacevole».
Il Campionato italiano di serie A è cominciato da poco. La squadra che l’ha sorpresa di più qual è?
«Il Sassuolo… E anche la Lazio ha un bel gioco».
Chi vincerà?
«Una tra Juve, Roma e Inter».
La Juve ha perso le prime due partite.
«Può capitare. Ma certe squadre recuperano facilmente. I giocatori sono supportati dalla storia del club, che contribuisce a dargli personalità».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Probabilmente non portare Roberto Baggio al Mondiale in Giappone e Corea. Si era fatto male e anche i medici dissero che era meglio non rischiare. Ma insomma, se fosse stato efficiente avrebbe potuto fare la differenza».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Continuare a fare il calciatore dopo che era morto mio padre. Volevo smettere per non lasciare sola mia madre. Intervenne il direttore generale del Milan, Gipo Viani. Andò da mamma e le disse: “Guardi, non so se suo figlio diventerà un campione, ma di sicuro può mantenere lei e la sua famiglia”. Mi diedero uno stipendio di centomila lire e così decisi di continuare a giocare».
È vero che suo padre non voleva che lei facesse il calciatore?
«Era un vero lavoratore bergamasco. Diceva che a furia di sudare dietro a un pallore ci si rovinava la salute. Una volta bruciò le scarpette da calcio di mio fratello. C’è stato un periodo in cui in pratica mi allenavo di nascosto, perché lui voleva che lavorassi e basta».
Dove?
«In un’azienda di cartotecnica. Quando venne a sapere che avevo esordito con la prima squadra del Milan, mi disse: “Me lo dovevi dire. Sarei venuto allo stadio. Non so se avrò la fortuna di vederti”. Tre giorni dopo morì. Per molti anni mi sono portato dietro un gigantesco senso di colpa».
Lei che cosa guarda in tivvù?
«Il calcio, la politica e da qualche anno sono appassionato di Overland, una trasmissione che parla di viaggi in giro per il mondo».
Il film preferito?
«Mi piacciono molto i western».
La canzone?
«Quella mia e di mia moglie è Il cielo in una stanza».
Il libro?
«Ho spaziato molto. Ne ho letti moltissimi e mi sono acculturato. Ho seguito molto i russi».
Articolo 1 della Costituzione? L’Italia è una Repubblica…
«…democratica…».
…fondata sul lavoro.
«… e sulla libertà».
Quella sulla libertà è una sua aggiunta.
«Ci starebbe bene».

 

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