Giampaolo Pansa (Sette – settembre 2015)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera, l’11 settembre 2015).
Si autodefinisce un “dinosauro” del giornalismo. Sta per compiere ottant’anni e da più di cinquanta cesella cronache, editoriali e corsivi. Giampaolo Pansa è l’ultimo alfiere di un mestiere in via di estinzione, fatto di ritagli catalogati nelle cartelline e di una scrittura sanguigna. Non usa internet, non frequenta i social network, ma si muove con disinvoltura tra i faldoni del suo archivio. Prima di cominciare l’intervista, mi mostra la parete dedicata ai democristiani. Accanto ci sono gli scaffali sui comunisti. Lui ha inventato la definizione di “Balena bianca” per la Dc e quella di “Parolaio rosso” per Fausto Bertinotti. Ogni settimana col suo Bestiario (prima sull’Espresso e ora su Libero) sbertuccia vizi e magagne della nostra classe dirigente, in maniera equiferoce.
Lo incontro nella sua abitazione senese. Con noi c’è Adele, la compagna con cui vive da anni. Su un tavolinetto di fronte alla scrivania sono accatastati molti dei suoi libri. Ne ha scritti quasi sessanta. E in questi giorni sta completando la sua autobiografia: la storia di un ragazzo nato nel 1935. In cima a una pila spicca la copertina di Il sangue dei vinti: il tomo del 2003 sui crimini dei partigiani compiuti dopo il 1945 che ha scatenato una valanga di polemiche e che è costato a Pansa il passaggio dalla categoria degli esimi editorialisti progressisti a quella dei traditori della Resistenza. Sulla Resistenza, sul dopoguerra e sulle polemiche giornalistico/storiografiche seguite a ogni pubblicazione, Pansa ha sfornato altri sette/otto titoli. Ora è appena uscito per Rizzoli il capitolo finale di questo lungo ciclo. Si intitola: L’Italiaccia senza pace (Rizzoli, pp. 351, 20 euro). Dentro ci sono: la storia di una famiglia ebrea del Monferrato, un mistero, qualche amore e molti delitti. Mentre parliamo Pansa ha davanti a sé un foglio di carta bianco con una frase appuntata, in rosso: «L’Italiaccia racconta il passato per metterci in guardia dal futuro». Spiega: «Rischiamo di finire come nel secondo dopoguerra. E non vedo in giro un leader di livello europeo come Alcide De Gasperi che aiuti l’Italia a risollevarsi».
Lei non ha grande fiducia nel premier Matteo Renzi. Nella sua rubrica domenicale, su Libero, lo bastona spesso.
«La prima volta che l’ho incontrato è stata in uno studio televisivo di Sky. Era ancora sindaco di Firenze. Alla fine della trasmissione mi ha detto: “Lei vuole farmi passare per nichilista”. E io ho pensato: “Magari lo fosse. Un nichilista almeno ha un pensiero”».
Lo ha ribattezzato il Ganassa fiorentino.
«O Ciccio bomba cannoniere. Renzi è uno spaccone che si occupa principalmente di piazzare i fedelissimi sulle poltrone giuste. Da segretario del Pd ha esordito assassinando Enrico Letta, che è una persona seria, per fregargli il posto. Non l’ho mai detto, ma alla fine credo che ci meritiamo Renzi: svela che cosa è diventata l’Italia, un Paese finito».
Non esageri: il governo ha appena annunciato che l’occupazione cresce e che il Pil è di nuovo in movimento.
«Come ha detto Papa Francesco, è in corso una Terza Guerra Mondiale. L’Isis ci minaccia. Abbiamo centinaia di migliaia di profughi e di migranti che bussano alle nostre porte. E siamo disarmati. La Merkel avrà pure delle incertezze, ma noi con Ciccio bomba dove andiamo?».
Si dice: la fortuna di Renzi è che non si intraveda all’orizzonte un’alternativa.
«Io non voto da un paio d’anni. Non ho mai votato Lega, ma ora sono tentato. Nella speranza che Salvini mandi a casa il Ganassa».
Matteo Salvini, il leader con la ruspa.
«Fa la sua battaglia e pensa che quello sia lo spazio politico da occupare. Da un po’ di tempo sto osservando Alfio Marchini: Berlusconi, che non sa più da che parte voltarsi, potrebbe puntare su di lui».
Anche a livello nazionale?
«Intanto a Roma».
A Roma, c’è Ignazio Marino.
«Ganassa anche lui, ma a fumetti. Sembra un personaggio dei cartoon».
La sinistra del Pd. D’Alema, Bersani…
«Non hanno il coraggio di fare quel che dovrebbero: la scissione».
Un’altra scissione?
«È il destino della sinistra. Vogliamo andare contro i destini storici di un partito?».
Da quando ha pubblicato Il sangue dei vinti, nel 2003, il suo rapporto con la sinistra è decisamente peggiorato.
«Alcuni politici che prima desideravano la mia presenza alle feste di partito o chiedevano insistentemente di essere intervistati, si sono volatilizzati».
Fuori i nomi.
«Tanti. Piero Fassino, per esempio. Nell’autobiografia che sto scrivendo, dedico molte pagine anche ai randellatori: Giorgio Bocca, Angelo D’Orsi…».
D’Orsi e altri storici hanno lottato per smontare il suo “revisionismo” sulla Resistenza.
«Più randellavano, più io mi sfregavo le mani: è anche grazie a loro che Il sangue dei vinti ha venduto un milione di copie. Mi hanno dato del traditore perché per la prima volta uno a cui la sinistra aveva persino offerto un paio di candidature svelava la grande bugia sulla Resistenza: quella dei partigiani non è stata una cavalcata trionfante ed eroica, ma una vera guerra civile e una tragedia con molte nefandezze».
A sinistra, già nel 1991, lo storico Claudio Pavone con il libro Una guerra civile aveva scompaginato la vulgata sulla Resistenza.
«Partecipai con Pavone a un paio di presentazioni del suo libro. Gli ex partigiani in sala mugugnavano. Ma lui aveva alle spalle il Pci. Io ho fatto un passo in più: ho raccontato i vinti, le storie di chi militava della Guardia Nazionale Repubblicana. È stato un fatto epocale».
Non pensa di aver esagerato? Lei per molto tempo ha definito la Resistenza “una Patria morale”. Ora, nell’Italiaccia, ci sono persino le partigiane il cui unico merito è quello di essere entrate nel letto del loro comandante.
«È il mio racconto. È la versione di Pansa. È la storia di un’Italia perduta e disperata. Quando avevo dieci anni ho visto partigiani costretti a camminare chilometri nella neve, coi piedi maciullati, prima di essere fucilati. Ma ho visto anche i fascisti nelle gabbie, trattati come bestie, e le ragazze esposte in piazza coi capelli rasati, solo perché si erano fidanzate con un soldato della Repubblica sociale. E questo era un tabù indicibile. Ho detto: “Il Re è nudo”, e le sentinelle dell’antifascismo professionale si sono inalberate».
Qualche mese fa, il 25 aprile, lei ha ribadito che se avesse avuto qualche anno in più nel 1943 sarebbe andato sui monti a combattere contro i nazisti.
«E se mi chiede chi era dalla parte giusta durante la guerra civile, le dico i partigiani. Magari però facendo una scrematura. E togliendo dalla parte giusta i comunisti che speravano di proseguire la lotta e di fare dell’Italia l’Ungheria del Mediterraneo. Lo confesso: degli attacchi ricevuti, delle critiche aspre arrivate dagli ex amici… in realtà non me ne frega niente».
Davvero?
«Ho un gigantesco senso di superiorità e una autostima quasi eccessiva».
I colleghi del Gruppo L’Espresso, dove ha scritto per trent’anni (dal 1977 al 2008), come hanno accolto i suoi libri “revisionisti”?
«Ezio Mauro un giorno mi disse: “Tu non devi scrivere libri come Il sangue dei vinti. Devi scrivere per i tuoi vecchi lettori».
Che cosa rispose?
«Arrivederci e grazie».
In più di cinquant’anni di carriera lei ha frequentato molte redazioni.
«Otto. Sono stato fortunato. Oggi, però, a un ventenne direi di fare qualsiasi cosa ma non il giornalista. Non ci sono più soldi e i contratti veri sono una rarità».
Molti giornalisti sono precari e sottopagati. Si può essere intellettualmente veramente liberi in queste condizioni?
«Direi di no. Sei libero solo quando non essendo più in sintonia col tuo direttore o con la testata per cui lavori, puoi dire “me ne vado” e sai che c’è qualcuno che ti può accogliere alle stesse condizioni».
Lei quando ha avuto il suo primo contratto?
«Nel 1961. Giulio De Benedetti, direttore di La Stampa, mi convocò dopo che avevo vinto il premio Einaudi per la mia tesi di laurea sulla Resistenza».
Il primo pezzo per La Stampa?
«Me lo commissionò Carlo Casalegno per le pagine della cultura: una recensione di un libro sullo sbarco in Normandia. Dopo averlo scritto aspettai di vederlo in pagina. Trascorsero due settimana, ma non usciva. Venni convocato dal direttore. Mi accolse sventolando il foglio su cui era stampato il pezzo. Disse: “Questo non è un articolo, ma una pessima cronaca dello sbarco, evento al quale non credo che lei abbia partecipato”. Poi prese il foglio e lo ridusse in coriandoli».
Qual è l’articolo di cui va più fiero?
«Non ce ne è uno. A molti colleghi che mi consideravano un loro zio professionale, è rimasto impresso l’attacco del mio primo servizio dal Vajont: “Scrivo da un paese che non esiste più”».
Pensavo che citasse l’intervista sul Corriere a Enrico Berlinguer, durante la quale il leader comunista diceva che non desiderava l’uscita dell’Italia dalla Nato.
«In quel caso il merito fu di Berlinguer. Eravamo alla vigilia delle elezioni del 1976. Io e Piero Ottone, direttore del Corsera, preparammo le domande e le inviammo a Botteghe Oscure».
Si usava inviare le domande prima dell’intervista?
«Era obbligatorio in quel caso. Conservo il testo, scritto con la biro, con le correzioni di Berlinguer al mio testo. Una calligrafia piccola, inclinata verso destra. Eravamo d’accordo che uscisse contemporaneamente sull’Unità e sul Corriere. Il giorno della pubblicazione mentre facevo colazione in una sala dell’hotel Raphael incrociai Bettino Craxi che mi disse: “Con questo articolo hai regalato 500 mila voti al Pci”. Quando presi l’Unità in mano, feci un balzo. Non c’erano le risposte sulla Nato. Berlinguer aveva pensato bene di farle leggere ai lettori del primo quotidiano della borghesia, ma non a quelli delle sezioni comuniste».
A cena col nemico?
«Con Sergio Luzzatto».
È stato uno degli storici più agguerriti contro Il sangue dei vinti.
«Nel suo libro Partigia mi ha quasi riabilitato».
Lei ha un clan di amici?
«No. Li ho persi tutti».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Decidere di fare il giornalista. È successo dopo la terza media, quando mio padre mi regalò una macchina da scrivere».
Le prime righe scritte a macchina?
«Storie brevi di ispirazione salgariana. A sedici anni mi presentai dal direttore del settimanale Il Monferrato per proporre i miei racconti».
Glieli pubblicò subito?
«No, mi disse che lui aveva bisogno di notizie e non di testi narrativi. Replicai che avrei potuto riscrivere quelle che pubblicava lui, visto che mi sembravano redatte coi piedi. Venni messo a compilare recensioni di film».
Il film preferito?
«Il giorno più lungo con John Wayne. E Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Li rivedo sempre volentieri».
L’Italia è una Repubblica…
«…democratica fondata sul lavoro. In realtà non è così, ma lo si prende come auspicio».
Abbiamo finito.
«Io al Pansa avrei fatto un’altra domanda».
Quale?
«Ha paura di morire?».
Ha paura di morire?
«Certo. Ma fingo di essere immortale».

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