Elsa Fornero (Sette – maggio 2013)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera, il 31 maggio 2013)

La consapevolezza che il suo lavoro sia stato poco capito le ha lasciato una certa amarezza. Elsa Fornero, economista ed ex ministro del Welfare, ha firmato le riforme meno amate del governo Monti. Ha cambiato in modo radicale il sistema pensionistico e il mercato del lavoro. E ha vissuto i suoi sedici mesi da tecnico prestato alla guida del Paese in un frullatore di immagini stonate, titoli sparati e polemiche pelose: le lacrime in conferenza stampa, la querelle per aver parlato dei giovani “choosy”, le critiche ruvide sull’entità del fenomeno degli esodati e quelle bipartisan per aver “rallentato” le assunzioni in tempo di recessione. Fornero cataloga il tutto come “frastuono mediatico” e chiarisce: «Ho dovuto sostenere un notevole carico di sofferenza, ma non ho rimpianti. Chi non fa, non sbaglia. Noi quelle riforme le dovevamo fare: per uscire dalla crisi finanziaria e per gli impegni assunti dal governo Berlusconi a livello europeo, nell’estate del 2011».
Contatto la professoressa mentre è in visita al Max Planck Institute di Monaco, in Germania. Segue con “partecipe distacco” gli annunci riformatori del suo successore Enrico Giovannini. Mi fa notare con fierezza di aver rinunciato alla pensione da ministro, che sarebbe stata, da subito, il doppio di quella che avrà da docente, tra cinque anni. Quando le chiedo se, potendo tornare indietro, accetterebbe ancora l’incarico con Monti, prima fa una pausa, una lunga pausa, e poi comincia a recitare il messaggio che le inviò Daniel Gross, direttore del Centro Studi di Politica Europea, dopo il giuramento al Quirinale: «Poter far parte di un governo che oltre a salvare l’Italia, salverà l’Europa, deve essere un onore». Partiamo da qui.
Sarà stato pure un onore, ma il governo tutto austerity di Monti in questo momento non viene percepito esattamente come il salvatore della Patria. Anzi.
«Da qualche mese nessuno parla più di spread. C’è anche chi sostiene che è calato solo per merito di Mario Draghi. Ma Draghi e la Bce avrebbero potuto gestire la crisi del debito senza un’Italia virtuosa?».
Si dia una risposta.
«La risposta l’ha data Enrico Letta intervistato da Fabio Fazio. Ha detto che la riforma delle pensioni ha restituito credibilità all’Italia e che ha contribuito alla stabilizzazione finanziaria europea».
La sua riforma delle pensioni ci ha insegnato anche una nuova parola: esodati.
«Non l’ho certo inventata io».
Gli esodati sono i dipendenti e i manager che hanno lasciato un’impresa e si sono ritrovati lontanissimi dalla pensione e fuori dal mercato del lavoro.
«Al varo della riforma avevamo previsto una salvaguardia per circa 65.000 persone».
Gli esodati sono risultati essere molti di più. I tecnici hanno fatto un macroscopico errore tecnico?
«Non so se sia stato un errore tecnico o un problema di inadeguata raccolta di informazioni: molti accordi collettivi a livello regionale e quelli individuali tra lavoratori e imprese non erano stati comunicati».
Una riforma delle pensioni così drastica e poco graduale ha comunque rotto un patto tra i cittadini e lo Stato.
«Nelle condizioni in cui eravamo, il sistema non era più sostenibile. Quanto sarebbe stata dura la rottura di quel patto nel momento in cui non fosse stato più possibile pagare le pensioni?».
Forse lo dovevate chiarire meglio.
«Ci ho provato. Mi hanno dato della professorina saccente. L’Italia era a rischio. I conti andavano messi a posto in tempi rapidi e quello era l’unico strumento. Non si poteva più agire con il gradualismo esasperato del passato».
Ora sembra che Giovannini voglia consentire prepensionamenti in cambio di pensioni più basse.
«La flessibilità del pensionamento è sempre stata un mio obiettivo, ma noi non avevamo le risorse».
Giovannini metterà mano anche alla sua riforma del mercato del lavoro. Il tema della disoccupazione giovanile è diventato una priorità europea.
«Nelle parole del nuovo ministro vedo una linea di continuità con il nostro operato. Le riforme perfette non esistono e bisogna avere l’onestà intellettuale di rafforzare ciò che funziona e modificare ciò che funziona meno».
I partiti che sostenevano il governo Monti ora fanno a gara per prendere le distanze dalla riforma Fornero: “Va superata”, “Va abolita”, “Va cambiata”.
«È il gioco, spesso crudele, della politica. La riforma è stata votata dal Parlamento a larga maggioranza ed è stata condivisa dalle parti sociali, con la sola eccezione della Cgil. Riflette un difficile equilibrio tra chi chiedeva maggiore contrasto al precariato e chi pretendeva maggiore flessibilità. La riforma avrebbe avuto un diverso gradimento se ci fossero state le risorse per ridurre il costo del lavoro».
È questa la priorità?
«Sì, magari agendo sull’Irap. Starei attenta a modificare i contratti prima di averne studiato gli effetti».
Le si rimprovera di aver creato un blocco delle assunzioni, riducendo la cosiddetta “flessibilità in entrata”.
«Ho lavorato per correggere le debolezze strutturali del mercato del lavoro. Purtroppo, la riforma è stata realizzata nel momento peggiore della recessione».
Non era il caso di correggerla in corsa?
«La recessione si combatte modificando il quadro macro-economico europeo, non impoverendo le relazioni di lavoro con nuove regole ultra flessibili. I contratti “mordi e fuggi” possono dare una boccata di ossigeno alle imprese in tempi di crisi, ma non devono diventare la regola. Non è nell’interesse dei lavoratori e neppure delle imprese».
Sicura?
«Credo che sacrificare la qualità dei contratti sull’altare dell’emergenza non aiuti l’uscita dalla crisi. Capisco che si voglia, per esempio, ridurre il tempo che la riforma ha esteso tra un contratto a termine e l’altro. Ma bisogna stare attenti a non ricadere in quella flessibilità malata chiamata precariato. Gli ultimi dieci anni ci dovrebbero aver insegnato che una grande flessibilità, peraltro limitata all’entrata, non porta grandi frutti né sul piano dell’occupazione giovanile, né su quello della produttività».
Come si ottengono quei frutti?
«Investendo sul lavoro. Usando l’apprendistato non solo perché costa meno, ma perché fa crescere davvero le competenze dei lavoratori. La riforma è ispirata al sistema tedesco, che ha nell’apprendistato il suo pilastro».
Il suo sistema di apprendistato è giudicato troppo complesso.
«Perché la formazione è regolata anche a livello regionale e occorre lavorare con le amministrazioni locali perché adottino regole uniformi e coerenti. Detto ciò, la mia riforma va vista nell’insieme. Spesso ci si scorda dell’innovazione rappresentata dall’Aspi, e del fatto che con la mini-Aspi abbiamo introdotto una sorta di primo reddito minimo garantito per i giovani».
Qual è stato il momento peggiore della sua esperienza di governo?
«Quando sono arrivati attacchi pesanti a mia figlia. Espressioni di vigliaccheria e di cattiveria purtroppo molto diffuse. Se non fosse stato per la vicinanza del Presidente Giorgio Napolitano, probabilmente avrei lasciato. Una tale dimensione di malanimo non l’avevo mai incontrata, in tutta la mia vita».
La sua vita. Lei dove ha studiato?
«A Torino. Facoltà di Economia».
La Torino operaia durante gli anni Settanta.
«Mi sentivo idealmente parte della protesta e partecipavo ai dibattiti, ma non ho mai fatto parte dei gruppi organizzati e non ho mai condiviso la richiesta del “diciotto politico”».
Ha mai fatto politica?
«La Dc mi chiese se volevo candidarmi: a San Carlo Canavese ero una dei pochi a frequentare l’università. Declinai l’invito. Alle amministrative torinesi del 1993, invece, sono stata eletta in Consiglio con la lista civica Alleanza per Torino che sosteneva il sindaco Castellani. Paolo Ferrero, ora segretario di Rifondazione Comunista, allora mi chiamava “la vestale del capitalismo”».
A cena col nemico?
«Con Cesare Damiano».
L’ex ministro del Welfare del governo Prodi: ha detto che le riforme Fornero vanno cambiate profondamente.
«Non è stato molto comprensivo con me. E pensi che eravamo compagni di scuola».
Frequentavate lo stesso liceo?
«No, lo stesso istituto per ragionieri: l’Einaudi di Torino».
Anche Stefano Fassina, attuale viceministro dell’Economia, è stato poco comprensivo: disse che era giusto non invitare Fornero alle Feste democratiche.
«Lo considero un episodio di inspiegabile mancanza di dialogo che contrasta in modo clamoroso con l’invito che mi venne fatto dalla Fiom di incontrare i dipendenti, oltre mille, dell’Alenia».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Scegliere di studiare Economia e non Lettere».
Perché fece questa scelta?
«Vengo da una famiglia modesta. Mio padre era operaio, mia madre casalinga. La facoltà di Economia mi dava più garanzie per il futuro».
L’errore più grande che ha fatto?
«Come ministro? Aver capito solo in parte la portata storica dei cambiamenti in corso».
Che cosa guarda in tv?
«Guardo poca televisione. I notiziari e qualche bel film».
Il film preferito?
«Le ali della libertà con Tim Robbins».
La canzone?
«La gatta di Gino Paoli».
Il libro?
«Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen».
Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Mezzo chilo, circa un euro».
Conosce i confini della Libia?
«Algeria, Tunisia…».
L’articolo 12 della Costituzione?
«Quando ero ministro mi ero ripromessa di ristudiare la Costituzione. Ammetto che l’articolo 12 non lo ricordo».
È quello che descrive il Tricolore. Il suo articolo preferito?
«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
Lei venne molto criticata per aver detto al Wall Street Journal che il lavoro non è un diritto acquisito.
«L’inglese fu travisato. Parlavo della necessità di garantire le opportunità di lavoro per tutti, anziché singoli posti di lavoro, anche quando non più produttivi, per pochi. Il principio del diritto al lavoro va declinato nella realtà. Lo stesso discorso vale per le pari opportunità: molto enunciate, ma poco applicate».
Lei è stata anche ministro delle Pari Opportunità. Favorevole o contraria ai matrimoni gay?
«Occorre fare molta strada nella lotta contro l’omofobia. Sui diritti civili per le coppie di fatto, etero e omosessuali, avrei voluto fare qualcosa».
Chi glielo ha impedito?
«Mi è stato ricordato spesso che si trattava di temi troppo sensibili per un ministro tecnico».
Obiezione debole.
«Mi dissero anche che proposte in questo ambito avrebbero fatto cadere il governo».

Vittorio Zincone
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