Stefano Sollima (Sette – dicembre 2013)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera, il 13 dicembre 2013)
Interno di un locale. Due uomini stanno parlando. Uno dei due, il boss, ha appena scoperto che il suo luogotenente non si è comportato come doveva. Ce l’ha di fronte. Allora prende un calice, ci fa la pipì dentro e glielo porge: «Brindiamo». Cin cin.
È una scena della nuova serie tv Gomorra che andrà in onda su Sky nel 2014. Il regista è Stefano Sollima, 47 anni, già autore della fiction Romanzo criminale. Gomorra, come Romanzo criminale, è piaciuta molto ai distributori internazionali che hanno fatto a gara per acquisirne i diritti. Dice: «Ho rischiato l’embolia quando ho scoperto che qualcuno rifarà Gomorra, magari ambientato a Copenhagen».
Contatto Sollima mentre si trova a Los Angeles. L’intervista si svolge via Skype. Si presenta sullo schermo con una T-shirt nera. Ha la voce roca e la cadenza un po’ romanesca. Chiedo se sia in vacanza. Replica: «Faccio cose, vedo gente, ahah. Ho un agente americano, sto facendo molti incontri».
Il padre, Sergio, era regista e sceneggiatore. Sono suoi alcuni leggendari western e lo sceneggiato tv Sandokan. Stefano è cresciuto in mezzo agli attori. Ha frequentato set leggendari: «Ho alcune foto in cui abbraccio le tigri della Malesia. Intorno a me erano sempre tutti mascherati. Cappelli, sciabole, pistole… Pensavo: da grande voglio fare anche io questo mestiere».
Tuo padre era noto perché i suoi western avevano spesso un retrogusto politico, social-terzomondista. Hai ereditato questa sensibilità?
«Oggi ci sono modi diversi di fare politica con il cinema».
E cioè?
«Preferisco raccontare le storie cercando di far emergere il punto di vista dello spettatore. E non quello di chi gira il film. Non mi piace rappresentare un centro morale a cui fare riferimento. Preferisco provocare».
Questo è evidente. La tua opera più nota, la serie Romanzo criminale, ha fatto infuriare critici e politici. Quando era sindaco, Alemanno disse che le risse con i coltelli per le strade di Roma erano anche colpa vostra.
«Alemanno ora fa un altro mestiere. Io continuo a fare il regista. Vicino a casa mia dei ragazzetti che avevano rubato alcune merendine si facevano chiamare Libanese, Freddo…».
Come i protagonisti della serie.
«…Sì. Ma non mi pare il caso di rinunciare a rappresentare una realtà perché quattro idioti potrebbero farsi influenzare. In queste polemiche interviene anche la nostra coscienza sporca».
E cioè?
«Noi italiani preferiamo essere raffigurati meglio di quello che siamo. Tendiamo a censurare la messa in scena dei nostri difetti».
Con la serie Gomorra le polemiche sono cominciate addirittura durante le riprese.
«L’amministrazione non voleva che girassimo a Scampia, perché la popolazione è stufa di essere associata solo al malaffare. Un po’ hanno ragione, eh».
Per alcune scene avete affittato la casa di un boss camorrista.
«Prima di girare non sapevamo che fosse un boss».
Lo potevate immaginare.
«La verità è che quando approdi in certe zone del Paese, ti accorgi di essere praticamente all’estero. E non c’è una guida. Non c’è lo Stato che ti spiega chi è buono e chi no».
È vero che uno dei ragazzi selezionati per interpretare la fiction è stato arrestato prima di cominciare?
«Sì, era successo anche per le riprese di Romanzo criminale».
Ed è vero anche che uno dei tuoi attori è stato beccato mentre tirava calcinacci sulla troupe della fiction L’oro di Scampia con Beppe Fiorello?
«Sì, ma quello non è un delinquente: è un ragazzo che ha fatto un gesto sciocco. Abbiamo girato la fiction mentre era in corso la faida tra i “girati” e gli “scissionisti”. In alcune location non abbiamo fatto riprese perché erano luoghi del delitto. Ci sono stati molti morti. Un giorno a poche decine di metri da noi uno dei clan ha fatto esplodere un bar. Per avvertimento».
Anche tu hai fatto esplodere un bar “per fiction”. Un costo mostruoso per pochi secondi di scena.
«Sono un privilegiato. Giro le scene a cui mi piacerebbe assistere da spettatore. Ho la fortuna di avere un committente, Sky, e un produttore, Cattleya, che mi lasciano libero. Posso essere “acido”, usare musiche elettroniche… Non ho i vincoli tradizionali della tv generalista».
Quali sarebbero?
«Quelli delle fiction per anziani. Ritmi lenti, linguaggio semplice, attori famosi…».
Per la fiction di Romanzo criminale scegliesti dei quasi sconosciuti.
«Lì c’era anche il problema del film Romanzo criminale. Michele Placido aveva rastrellato tutto il meglio di una generazione: Favino, Kim Rossi Stuart, Santamaria… Io avevo l’esigenza di dare un volto nuovo ai criminali. Per Gomorra ho selezionato soprattutto giovani dei quartieri e attori del teatro napoletano».
Roberto Saviano ti ha aiutato?
«Sì. Ha fatto in modo che io e gli sceneggiatori (l’head writer Stefano Bises e Leonardo Fasoli, Filippo Gravino, Ludovica Rampoldi, ndr) non facessimo errori nell’opera di attualizzazione delle storie raccontate nel suo libro».
Tu quando hai cominciato a lavorare per la tv?
«Dopo il diploma. Un amico mi chiese se volevo provare a fare l’operatore per un service. Ho lavorato anni per molti network internazionali».
Le prime riprese?
«Forse una parata del 2 giugno. Ma poi sono stato in Libia, in Medio Oriente. L’ultima esperienza da filmaker è stata durante la prima guerra del Golfo, nel 1991. Poi ho iniziato a girare cortometraggi».
All’inizio degli anni Duemila hai fatto la regia di alcuni episodi di Un posto al sole e di La squadra.
«Una palestra. Se sopravvivi a quelle produzioni puoi girare qualsiasi cosa».
Perché?
«Il 95% delle scene è “buona la prima”, senza prove né tempo per preparare gli attori. Per concepire e allestire lo spazio della scena in media si ha una mezzoretta».
Sembri fiero.
«Volevo fare un’esperienza in una grande macchina produttiva. Alla Grundy ho trovato quel che cercavo. È stato un laboratorio di giovani talenti. Paolo Sorrentino ha cominciato con La squadra. E Gabriele Muccino con Un posto al sole. Lì siamo cresciuti professionalmente, ma anche economicamente».
Il problema del cinema italiano è l’assenza di soldi?
«No. È l’assenza di una politica industriale».
Spiegati meglio.
«Abbiamo attori e registi di alto livello. Manca un approccio da industria vera del cinema. Ci siamo persi un sacco di generi per strada. E ora produciamo solo commedie».
Quali generi ci siamo persi per strada?
«I thriller, i polizieschi, gli horror…».
Gli horror costano.
«Scherzi? Prendi Saw. Sei persone chiuse in una stanza. È l’idea che vince».
A cena col nemico?
«Con Berlusconi, ovviamente. Tutti quelli che lo hanno conosciuto mi hanno detto che è una persona brillante».
Hai un clan di amici?
«Antichissimi. Risalgono ai tempi del liceo».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Fare la tv. Sembrava un passo indietro. Si sono rivelati quattro passi avanti».
L’errore più grande che hai fatto?
«Cominciare la carriera pensando di essere un genio».
Che cosa guardi in tv?
«Non guardo le “generaliste”. Guardo le serie tv».
Un esempio?
«Homeland o House of cards».
Il film preferito?
«Questa domanda mi procura un forte mal di testa. Aspetta… Direi Apocalypse now di Francis Ford Coppola».
Il libro?
«Papillon di Henri Charrière. Una vita di evasioni. Letto e riletto».
La canzone?
«Simpathy for the Devil dei Rolling Stones. La sto facendo ascoltare spesso al più piccolo dei miei figli: ha quattro anni e vuole diventare chitarrista».
Sai quanto costa un pacco di pasta?
«Circa novanta centesimi».
Usi Twitter?
«Sì, ma non ci perdo troppo tempo».
I confini del Marocco?
«Tunisia, Algeria… A Sud… non ricordo».
Conosci l’articolo 12 della Costituzione?
«No».
È quello che descrive il Tricolore. Il Tricolore…
«Sono abbastanza fiero di essere italiano. Ho viaggiato molto. Non vivrei in nessun altro posto al mondo».
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