Pierfrancesco Favino (Sette – marzo 2013)

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E’ stato guerriero fantasy e partigiano coraggioso, poliziotto crudele e marito appassionato, primario corrotto e militante anarchico. Una trentina di film negli ultimi dieci anni. Ora interpreterà un pilota spericolato in Rush, l’ultimo film di Ron Howard. Pierfrancesco Favino, 43 anni, con Elio Germano e Kim Rossi Stuart è uno dei pilastri attoriali del nuovo cinema italiano. Lo incontro in uno studio romano, quartiere Prati. Ha proposte chiare su come andrebbe ribaltata la nostra industria cinematografica. Racconta, teorizza, filosofeggia. A un certo punto si ferma e dice: «Starai pensando: ma questo che sta a dì?».
Favino ha appena doppiato Daniel Day-Lewis in Lincoln. L’audio-interpretazione ha ricevuto un po’ di critiche negative. Spiega: «Il doppiaggio è sempre un tradimento. Ho seguito le precise indicazioni di Spielberg. Ma può capitare anche a me di non piacere, eh». Quando la butto in politica e cerco di coinvolgerlo in un parallelismo paradossale tra Lincoln che “comprò” alcuni voti del Congresso per abolire la schiavitù negli Stati Uniti e Berlusconi che avrebbe comprato il voto del senatore De Gregorio per far cadere il governo Prodi, mi stoppa: «Non sono la persona adatta per parlare di questo argomento». Perché? «Perché di queste cose ne deve parlare chi ne capisce». Insisto con la politica.
Molti attori e personaggi dello spettacolo durante le ultime elezioni hanno abbracciato il grillismo.
«Io no».
Perché?
«Perché credo che la politica sia una professione. Ho avuto la fortuna di vedere all’opera politici straordinari».
Di chi parli?
«Di Berlinguer. E Moro. Ero piccolo ma li ricordo. Ho rispetto di queste persone. Anche di Napolitano. È politica alta».
Grillo ha avuto successo anche perché ha “abbassato” il linguaggio politico.
«I politici dovrebbero fare uno sforzo per essere più comprensibili. Ma poi esistono tecniche e conoscenze specifiche. È un lavoro per professionisti».
Chi è l’ultimo politico che ti ha convinto con la sua professionalità e il suo carisma?
«Sergio Cofferati, durante la manifestazione del marzo 2002 al Circo Massimo contro l’abolizione dell’articolo 18».
Sono passati undici anni.
«Durante i quali si è vista molta autoreferenzialità. L’autoreferenzialità della politica allontana elettori e cittadini. Come quella del cinema rischia di allontanare gli spettatori».
I problemi del cinema italiano.
«Sono tanti. Negli ultimi venti anni si è consolidata l’idea che il cinema sia inutile e che al massimo sia un passatempo. Ai tempi di Tognazzi e Mastroianni, invece, era un rito collettivo che elevava l’individuo».
Ora c’è la tv.
«Non è solo colpa della tv. Le sale cinematografiche non ti scaraventano più in una dimensione diversa da quella abituale. Siamo bombardati di immagini, ogni secondo. Chi gestisce le sale dovrebbe adeguare l’offerta ai tempi. E poi c’è la qualità dei film».
Non è buona?
«Non è eccelsa. Tranne pochi casi. È ora di mettere in discussione la parola autore».
Perché?
«Circola una strana idea di intelligenza, per cui si è autori se si è poco comprensibili. Il discorso regge quando si ha a che fare con geni come Antonioni, Bellocchio, Bertolucci, ma per il resto…».
Gli autori/registi italiani sono troppo poco semplici?
«Non è questione di semplicità. Ma di comprensibilità. Rendere comprensibile la propria complessità è una dote, soprattutto in momenti di crisi come questo».
Crisi. Hai rinunciato a un premio per protestare contro i tagli al Fondo unico per lo spettacolo (Fus).
«Sia chiaro: sono contro l’assistenzialismo. Ma far passare attori e registi per parassiti, come hanno fatto per anni Brunetta, Tremonti e Bondi per giustificare i tagli al cinema, è davvero eccessivo».
Hai invocato più d’una volta il sistema francese.
«Una tassa su ogni biglietto, per finanziare il cinema nazionale. Non pretendo che la proposta venga accettata a occhi chiusi. Ma sarebbe bello se chi ci governa si informasse su come funziona altrove l’industria cinematografica».
La politica non ascolta il mondo del cinema?
«Durante l’ultima campagna elettorale la parola cultura non l’ha pronunciata nessuno. Sento la necessità di convocare gli “stati generali” del cinema, ma fa sempre “strano” il fatto che un attore pensi a queste cose».
Quando hai deciso di diventare attore?
«Ogni tanto mi chiedo se ci sia stata o no una scelta consapevole. Di sicuro l’ho sempre desiderato».
La tua prima esibizione?
«Mio nonno mi faceva fare degli spettacolini».
Hai artisti in famiglia?
«No. Mio padre era rappresentante di legnami, mia madre si occupava di noi quattro figli. Al liceo ho incontrato una persona che ha cambiato il mio modo di vedere il cinema».
Chi?
«Carla Giro, la mia professoressa di inglese. Ci faceva incontrare attori e registi».
Finito il liceo, subito l’Accademia di Arte Drammatica?
«Prima ho cominciato a studiare Scienze Politiche. Volevo diventare diplomatico. Poi, spinto anche da una fidanzatina, ho deciso che ci dovevo almeno provare, a fare l’attore».
Non sei diventato diplomatico ma negli ultimi anni hai lavorato molto con il cinema americano: Una notte al museo, Le cronache di Narnia, Angeli e demoni, ora Rush. Sai bene l’inglese o hai un ottimo agente?
«Ho un ottimo agente e forse la mia cultura cinematografica è più americana che italiana».
In che senso?
«Ho sbobinato più volte De Niro che Volonté».
Hai l’abitudine di sbobinare le parti di altri attori?
«Studio. Anche quando vado al cinema. Ogni tanto mi sorprendo a imitare il gesto di un attore, a riprodurlo, per capire che cosa c’è dietro».
Metodo Stanislavskij?
«No. Metodo scimmiesco. Da primate. È una cosa istintiva».
La prima volta che ti sei ritrovato a riprodurre il gesto di un tuo collega attore?
«Con Un cuore d’inverno. C’è un momento in cui Daniel Auteuil si guarda le mani e poi le strofina tra loro lentamente. Dietro ogni gesto c’è qualcosa. Una scelta interpretativa. E spesso quel qualcosa rivela la tua umanità, che è ciò che colpisce davvero gli spettatori».
Spiegati meglio.
«Non credo che un attore venga apprezzato solo per quel che fa, per la performance. Penso che gli spettatori siano attratti anche dal conflitto che ogni attore porta con sé: io sembro un camionista, ma si percepisce che dentro di me c’è una fragilità. Questo conflitto che traspare è un dono che ti avvicina al pubblico».
A cena col nemico?
«Forse con Grillo. Lo stimo».
Che cosa guardi in tv?
«La partita della Roma quando non riesco ad andare allo stadio. Per il resto… ho smesso di guardarla».
Sei spesso ospite dello show tv di Maurizio Crozza.
«Crozza mi dà la possibilità di liberare la mia anima cazzona e di prendere in giro me stesso. Diciamolo: tutto il mondo del cinema avrebbe bisogno di un po’ più di autoironia».
Il film preferito?
«Otto e mezzo e C’era una volta in America».
Il libro?
«Pastorale americana di Philip Roth. Mi fa una rabbia che Roth abbia deciso di non scrivere più…».
Qual è l’errore più grande che hai fatto?
«Non trasferirmi all’estero. Finita l’Accademia ho pensato di andare a vivere a Londra. Ma non ne ho avuto il coraggio».
La scelta che ti ha cambiato la vita?
«Diventare padre».
Quanti figli hai?
«Due: Greta e Lea. Mi piace occuparmi di loro».
Sai quanto costa un pacco di pannolini?
«Dipende dal modello. Circa otto euro».
Sai che cos’è Twitter?
«Sì, ma cinguetto poco. Non credo che quel che penso e quel che faccio durante la giornata sia così interessante».
Sai quanti sono gli articoli della Costituzione?
«Centotrentanove».
Bravo. Che cosa dice l’articolo 139?
«È quello con tanti paragrafi?».
No, sta in una riga.
«C’è scritto… Fine?».

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Categorie : interviste
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