Fabrizio Ferri (Magazine – agosto 2007)

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Fabrizio Ferri, 54 anni, è una star della fotografia. Realizza libri, film, musica. È un pioniere del digitale e per un certo periodo, con il marchio Industria, ha fatto pure lo stilista. Il padre (Franco), era un leggendario gappista della Resistenza e dirigente del Pci. La moglie (Alessandra) è l’étoile, appena pensionata, della danza classica. Lui vive tra New York, Milano e Pantelleria, l’isola del turismo rural chic, dove ha un resort (il Monastero) che ospita Sting, Madonna e altri big planetari. Una volta, in radio, un giovane conduttore romantico intervistò Ferri sul tema «la passione e il desiderio». Prima domanda: «Come nasce la sua passione per la fotografia?». Risposta: «La passione? La passione mi è venuta solo quando ho cominciato a guadagnarci». Un approccio un po’ crudo. «Semmai sano: se non ti pagano è meglio che cambi mestiere». Ferri è lontano chilometri di pellicola da qualsiasi retorica frou frou. Ha un occhio cinicamente a fuoco sul mondo e, senza troppi giri di parole, cala colpi di mannaia su quel che gli capita nel mirino. Qualche esempio sulla politica: Hillary Clinton? «Un bluff». Walter Veltroni? «Lo stimo, ma non ha una visione del mondo». Il Partito democratico? «Una fregatura». Quando poi gli chiedi di Vallettopoli sperando che l’artista condanni l’uso truffaldino del clic, lui con una piroetta, sdrammatizza: «È roba che non sporca nulla».
Come, scusi?
«Se un fotografo imposta un servizio per fare scandalo e poi lo vuole vendere, o va dai giornali, o lo propone al fotografato che non vuole siano pubblicati gli scatti».
È un ricatto.
«Una volta stavo fotografando Rossella Brescia, la ballerina della tv, per un calendario. Era piuttosto svestita…».
Vi hanno beccati insieme?
«Ma figuriamoci. Però un paparazzo è entrato in azione e se fossero usciti gli scatti rubati nessuno avrebbe comprato il calendario».
Quindi?
«Diciamo che il direttore del giornale si è mosso».
La sua prima fotografia?
«Il 1° maggio 1970. Avevo 17 anni. Un amico mi chiese di fare qualche scatto alla manifestazione dei lavoratori. A lui piaceva soprattutto lavorare in camera oscura. Mi feci prestare da uno zio la macchina. Ma non sapevo usarla. Mi avvicinai a un tipo che aveva quattro reflex al collo. Gli chiesi come funzionasse l’attrezzo. Prima mi guardò sbigottito, poi mi diede qualche consiglio».
Gli sarà grato per tutta la vita.
«Era Vezio Sabatini, un grande reporter. Quel giorno feci una sola foto: un contadino con il figlio sulle spalle, abbracciato alla moglie. Le loro tre teste formavano un triangolo e dietro avevano mezzo milione di persone. Un amico dei miei genitori di Paese sera vide l’immagine e la volle pubblicare».
Raccomandato.
«Ma no. Mi diedero 50 lire. Però, il fatto di prendere soldi per una cosa che mi aveva emozionato… Non ho più smesso. All’inizio facevo costume politico. Poi venne la moda».
Come mai?
«Passavo più tempo in giro per quotidiani a vendere le foto che non dietro all’obiettivo. Allora comprai Vogue, per cercare l’indirizzo della redazione, e partii per Milano. Mi presentai senza appuntamento. L’art director, Roberto Carra, all’inizio non mi voleva nemmeno ricevere. Poi vide il mio book. Rimase sorpreso. Mi disse: “La donna Vogue non scopa, non fuma e non dice parolacce”. Pensai: “Sono rovinato”. E invece…».
Un figlio dell’austerità comunista che si dà alla moda. Critiche in famiglia?
«I miei mi chiesero solo se mi serviva una mano».
Poco ortodossi?
«In un certo senso erano creativi pure loro: cercavano una visione di un mondo migliore».
C’è chi vede il comunismo con meno romanticismo.
«Il primo grande errore del Pci è stato quello di scegliersi quel nome».
Uhm.
«In casa mia si respirava una passione politica vera. I decibel durante le discussioni serali raggiungevano livelli che nemmeno a un concerto pop. Ricordo le urla di Giancarlo Pajetta, di Antonello Trombadori, di Maurizio Ferrara e di sua moglie Marcella, mia zia. Io ascoltavo, appollaiato sui braccioli del divano. Solo quando veniva Palmiro Togliatti calava il silenzio».
Timore reverenziale?
«Rispetto».
Lei ha fatto il ’68 a Roma?
«Nella Fgci. Ero un leader della mia scuola, lo scientifico Righi».
Suo cugino, Giuliano Ferrara era presente alla celebre contro-carica di Valle Giulia: gli studenti contro la polizia.
«Arrivai con un’ora di ritardo. Chiesi a un poliziotto che cosa fosse successo. Lui mi acciuffò per i capelli e mi portò in commissariato. Eravamo cento in una stanza: facevamo a turno allo spioncino per respirare».
Il cuginetto Ferrara?
«Da piccolo era buonissimo. Io invece facevo giochi un po’ violenti. E un paio di volte l’ho mandato all’ospedale».
I giovani comunisti romani anni ’70: Walter Veltroni, Nando Adornato e Goffredo Bettini. Li conosceva?
«Loro erano più piccoli di me. Un giorno durante un’assemblea proposi di conquistare lo spazio politico che ci permettesse di parlare alla Sapienza. Mi seguirono solo Duccio Trombadori e Walter Veltroni. Arrivati davanti all’ingresso di Lettere, io e Duccio, che eravamo piuttosto robusti, dicemmo a Walter, che era gracilino, di aspettarci fuori. Fummo previdenti: dopo venti secondi che parlavo quelli dei gruppi extraparlamentari mi tirarono un banco».
Ora Veltroni, l’ex gracilino, punta dritto alla leadeship del Partito democratico.
«Lo stimo. Ma non mi pare che da lui e dalla classe dirigente del Pd, stia spuntando una qualsiasi visione del mondo. Vedo il vuoto assoluto».
Lei che cosa vota?
«Ho votato Unione. Però questa operazione del Pd mi sembra molto simile a quella delle aziende senza progetti che per risollevarsi si fondono tra di loro. Per cercare di ottenere più soldi in prestito dalle banche».
Si spieghi.
«I partiti non hanno più idee. E per attirare gli elettori, si accorpano. Danno l’illusione di ingrandirsi. Una fregatura. Degna di un Paese che sta marcendo».
Addirittura?
«Ma sì. Qualche giorno fa sono stato in fila un’ora all’aeroporto di Catania perché gli addetti all’imbarco erano in pausa pranzo».
E quindi?
«È uno sfascio voluto. Di mentalità. L’Italia è un Paese in cui i lavoratori rinfacciano a chi gli dà lavoro di voler fare utili. Come se fosse un delitto».
Compagno Ferri…
«La sinistra in Italia usa ancora una retorica assurda. Non è un caso che io stia riducendo l’attività milanese rispetto a quella di New York».
Già, l’attività. Eravamo rimasti al suo arrivo a Milano e all’avvicinamento a Vogue Italia negli anni Settanta.
«Il primo servizio fu con la modella Eva Mallstrom. Scelsi una ricevitoria del Lotto come location».
Subito pagatissimo?
«Ho dormito sei mesi su uno strato di polistirolo, perché non mi potevo permettere un materasso. All’inizio facevo la fame. Ma la fame vera. Arrivai a rosicchiare furtivamente una forma di cacio che l’amico con cui dividevo lo studio/appartamento doveva usare per delle foto. Alla fine degli anni ’70, invece, cominciai a lavorare parecchio. Nel frattempo ero stato a New York un anno».
Per lavoro?
«Principalmente perché ero fidanzato con Isabella Rossellini e lei stava lì. Faceva dei collegamenti per la trasmissione Alto gradimento. Per partire chiesi in prestito 1.000 dollari a Oliviero Toscani».
E lui glieli diede?
«Sì. E presi pure contatto con la sua agente, Frances Grill. Fu una svolta anche per Isabella».
Perché?
«Perché quando Frances la vide, le propose di fare la modella: l’inizio di una carriera. Tornato in Italia andai a lavorare per Mondo uomo e Donna. In quel periodo definii il mio stile».
Cioè?
«Beh, negli anni Ottanta le modelle venivano conciate come marziane. Gli costruivano capigliature con impalcature di cartone. Una cosa assurda. Durante una sessione fotografica decisi di spogliarle delle maschere per ridargli un’identità. Da allora ho capito che il mio compito non è mascherare, ma far vedere agli altri quel che vedo io».
La modella con cui si lavora meglio?
«Linda Evangelista, straordinaria. Ma anche Cindy Crawford, gran classe. E Stephanie Seymour, magica».
Ha lavorato anche con Naomi Campbell, la bizzosa.
«Con me, né lei né altre hanno mai fatto bizze».
Si è mai innamorato di una modella?
«No. Ma con molte ho avuto storie intensissime».
La faccia più bella da fotografare?
«Ne dico tre italiane: Monica Bellucci, Laura Morante e Isabella Ferrari».
Ha mai rifiutato di fotografare qualcuno?
«Mai. In questo lavoro non si possono avere preconcetti».
Vuol dire che farebbe una campagna pubblicitaria per qualsiasi partito?
«No. Con la destra ipocrita di Fini & Co, effettivamente avrei qualche difficoltà».
Il più difficile da fotografare?
«Il tycoon della Cnn, Ted Turner. Entrò nel mio studio e mi disse: “Ha al massimo dodici scatti, poi me ne vado”».
E lei che cosa fece?
«Rilanciai: “Me ne bastano tre”».
Primarie dei democratici Usa: Hillary Clinton o Barack Obama?
«Al Gore».
Ambiente, ambiente, ambiente?
«Intanto c’è da dire che Hillary è un bluff terribile».
I sondaggi la danno in vantaggio.
«Vedremo. Comunque mi sembra incredibile che anche i nostri politici non capiscano che l’unica guerra da combattere è quella per l’ambiente. A volte penso che Prodi, Rutelli, D’Alema e questa sinistra, siano in malafede. Al Gore…».
…non ha ancora annunciato la sua candidatura.
«Vedremo. Deve capire se può fare di più da candidato o da testimonial con le mani libere. Parlavo con lui qualche sera fa…».
Lo conosce?
«L’ho conosciuto a cena da Sting».
Che è un suo amico.
«Sì. Ho cominciato a frequentarlo una decina di anni fa a Pantelleria».
A proposito di cene. A cena col nemico?
«Silvio Berlusconi. È brillante e divertente».
L’ha incontrato?
«Sì. In Sardegna. Dove sono stato per fotografare sua figlia Barbara».
A Villa Certosa?
«Una casa immersa nella natura. Le fregnacce che si dicono sugli abusi edilizi di Berlusconi sono figlie dell’invidia».
Che fa, simpatizza?
«Ovviamente ho punti di vista molto diversi dai suoi. Ma condividiamo parecchi giudizi sull’assurdità della gauche italiana: è incredibile come un uomo di sinistra come me possa trovare armonia in un personaggio come Berlusconi».
La sua sliding door? La svolta che le ha cambiato la vita?
«L’incontro con mia moglie Alessandra».
La stella della danza. Quando è successo?
«Nell’estate del 1996. Io ero a Pantelleria per un servizio di Vogue Italia. Dovevo fotografare Isabella Rossellini. Isabella chiamò questa sua amica che stava a Palermo per uno spettacolo e le disse di venirci a trovare. Mi innamorai di Alessandra nel momento in cui la vidi scendere dalla macchina».
Lei era sposata.
«In crisi. Ci rivedemmo tre mesi dopo. Per realizzare il libro Aria».
Ritratti di Alessandra Ferri che gioca, volteggiando, con il cielo di Pantelleria.
«Da allora non ci siamo mollati un istante».
Delete. Cancelli un numero dal suo cellulare. Fotografi: Marco Glaviano o Oliviero Toscani?
«Cancello Marco. So dove abita a Milano, al massimo gli vado a bussare alla porta di casa».
Astuto. Giorgio Armani o Valentino?
«Due geniacci. Tengo Valentino».
Ma Armani è suo vicino a Pantelleria.
«Appunto».
Isabella Rossellini o Monica Bellucci?
«Isabella è un’amica e ci vediamo spesso. Ma tengo Monica, perché abbiamo ancora molti progetti da realizzare».
Cultura generale. Quanto costa un pacco di pasta?
«Non ne ho la più pallida idea. Ne compro dieci chili per volta».
Che cosa è Second Life?
«Non lo so».
È una vita virtuale on line. I confini di Israele?
«Sono quelli che gli dà il resto del mondo».
Già. Ma quali sono?
«Mi scusi… le mie figlie insistono per andare al lago».
Vabbè, suona come una scusa. Ma di fronte alle figlie, ci facciamo intenerire.

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Figlie importanti. «Considero casa il luogo dove stanno le mie figlie: quindi New York». Le due che lo distraggono dalle ultime domande dell’intervista sono Matilde ed Emma (10 e 5 anni). Avute da Alessandra Ferri. Poi c’è la più grande, Marta, 23 anni, nata dal primo matrimonio di Ferri con Barbara Frua De Angeli. Dietro questa intervista c’è lei, Marta. È lei che contatto a New York per il primo appuntamento. È lei che comunica le disponibilità del padre. È lei che ha scattato le foto di questo servizio. Quando chiedo a Fabrizio se dietro questa presenza di Marta ci sia una visione familistica degli affari, Ferri replica: «Ma Marta non si occupa mica dei miei affari. Fa molto di più: lei è il mio angelo custode».

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